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Libro brutto, noioso, rabbioso: uno dei libri più importanti che siano stati scritti.

Lo stesso Autore lo volle così, definitivo e fallimentare: “Voglio produrre una tale impressione di stanchezza e di noia, che leggendo questo libro si possa credere che sia stato fatto da un cretino” scrive Flaubert a un grande compagno di viaggi, Maxime du Camp (ed. Einaudi 1996, p. 356).

Questo libro è la prova che un testo non deve essere bello se il suo argomento sono la banalità, l’assenza di pensiero, la bruttezza sociale.

È, questo, un libro contro la volgarità e i volgarizzamenti, le enciclopedie a dispense e wikipediche, i tuttologi, i superficiali, i dilettanti, gli effetti-annuncio, la politica in un twit, la cultura low cost, le anime facili, le lauree brevi, le opere di un giorno, o in duemila caratteri, le balle che ormai tutti chiamiamo story-telling. Meglio, in un certo senso, un libro contro il chiamare story-telling le balle, perchè di balle se ne sono sempre raccontate tante, ma nessuno le ha mai fregiate di un titolo così pomposo se non l’epoca che ha convertito la materia in denaro e le idee in marketing.

Tutto questo ante litteram, s’intende, ma dentro Bouvard e Pécuchet, ad avere la pazienza e soprattutto la forza di leggerlo, si antivedono persino i socials, i populismi e il riscaldamento globale.

Demolizione così immane della civiltà occidentale all’apice della sua gloria è affidata a due ingenui scrivani in pensione, che con tenacia faustiana e socratica maieutica studiano il Tutto (geologia, storia, politica, ginnastica, filosofia, ars amandi, ecc. ecc.) per trovarlo difettoso, contraddittorio, parziale, ridicolo, infondato. E allora, nel canovaccio del capitolo finale (lasciato, chissà perchè, incompiuto) tornano a fare quello che avevano sempre fatto: copiano, copiano “a caso tutti i manoscritti e tutta la carta stampata che trovano, carta da tabacco, vecchi giornali, lettere perse…”