Seleziona una pagina

Pamuk in turco significa “cotone” e venne scelto come cognome dalla famiglia paterna di Orhan in riferimento alla propria carnagione chiara. Non tutti i Turchi, infatti, sono mezzi Mongoli coi baffoni lunghi, l’occhio a mandorla e la carnagione olivastra, come ce li immaginiamo noi sull’onda. Anzi. Il mio amico àli, per esempio, della Cappadocia, anche lui ha carnagione chiara e occhi azzurri, sì, proprio come in una poesia di Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, contenente una profezia che tutti dovremmo rileggere.

La pelle chiara di Orhan Pamuk bene si sposa con la sua condizione di intellettuale a metà tra due mondi, a metà tra Europa e Asia. Che è poi esattamente la stessa posizione geografica e mentale della città di Istanbul, a cavallo del Bosforo, a cavallo tra Oriente e Occidente. Orhan ce lo dice chiaramente: ” quando un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo, sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, e ho capito che ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere» (cit. da Istanbul, modif.).

Senza appartenere“. Quanto struggimento in sole due parole! Il problema di Pamuk è infatti quello dell’identità, culturale e personale insieme, un problema che nella modernità non può che configurarsi come malinconia. Qual’è infatti per Pamuk la quintessenza dell’Istanbul odierna se non la tristezza di un passato sconfitto dai cannoni occidentali e dall’influsso occidentale snaturato? Ecco perchè la sua Istanbul non è quella sgargiante e turistica di Santa Sofia e del Topkapì, bensì quella in bianco e nero delle case di legno ormai bruciate o demolite, delle ville aristocratiche e deserte, degli amori appassiti, degli scrittori solitari, affumicati ormai sul Bosforo da cargos e traghetti.

Un libro commovente. Il miglior modo, forse, per avvicinarsi alla “vera” Istanbul… che non c’è più!