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Tutti sappiamo come l’archeologia cerchi di ricostruire le antiche civiltà. Non tutti però sanno che gli stessi Greci, in particolare, praticavano una peculiare forma di archeologia, relativa al proprio stesso passato.

Tra il 1400 e il 1200 avanti Cristo, a Creta, avvenne il crollo di due civiltà, quella minoica e quella micenea. Da queste due civiltà, approdate o recuperate sulla terraferma, a partire dal 1000 avanti Cristo si sviluppò la civiltà greca come la conosciamo.

Ora, uno dei numerosi tratti originali e “geniali” della cultura greca fu interrogarsi in senso “archeologico” sulle civiltà che l’avevano preceduta e dalle quali aveva preso le mosse.

Immense e repentine distruzioni, oltre al fatto che i Minoici usassero una lingua non greca, il lineare A, concorsero a rendere l’archeologia greca mitologica e fantastica. Nelle mura micenee si videro le case degli Eroi, o dei Ciclopi, gli scheletri dei mammuth divennero quelli dei Giganti, con le etimologie più o meno fantasiose dei nomi dei luoghi fu disegnata una geografia di ninfe, le armi micenee divennero quelle di Eracle e di Achille, fu ritrovata persino la presunta lira di Orfeo, conservata come una reliquia, e alcune fenditure sull’Acropoli di Atene furono lette come i segni del tridente di Poseidone, i paesaggi si popolarono di ogni sorta di divinità, battaglie, amori e mostri leggendari, così che quasi nemmeno un sasso, una grotta, un corso d’acqua, un muretto a secco, un pilastro abbattuto rimasero privi di un’interpretazione pregnante e parlante.

Tutto, per i Greci, era un enorme, formidabile racconto, che rendeva la natura e la storia parti integranti della loro affabulante civiltà. In tale racconto, Boardman, autore di questo libro rigoroso e affascinante, ci conduce per mano come in una foresta di simboli e leggende.