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20 luglio 2022

D. F. WALLACE Infinite Jest (ed. or. 1996, ed. it. 2000 tr. Edoardi Nesi)

Visto che recentemente abbiamo parlato di tennis, è venuto il momento di affrontare il Mostro, l’Everest del post-moderno, l’Estremo Labirinto: mi riferisco ad Infinite Jest di DFW, ambientato in una scuola di tennis.

Infinite Jest è uno di quei libri, accanto per esempio all’Ulisse di Joyce e all’Arcobaleno della gravità di Pynchon, che nessuno capirà mai se si tratta di capolavori sovrumani o di una gaffe gigantesca. Ci sono infatti interi manuali per spiegare Infinite Jest, tirannosauro di 1296 pagine e 388 note e note delle note. Ci sono persino dizionari che ne spiegano il gergo. Ma io mi sono ben guardato dal consultarli.

Vi dirò come ho affrontato l’Infinite: mi sono fatto un’idea della trama e dei personaggi su Wikipedia e poi ho aperto pagine a caso, leggendole fino a quando mi sembrava che un episodio fosse concluso e godendomi decine, centinaia, migliaia di intuizioni letterarie più o meno comprensibili ma quasi tutte folgoranti.

In questo modo di sicuro non l’ho letto tutto ma altrettanto di sicuro ho letto e goduto molte più pagine che se lo avessi esaminato con la diligenza (e la fatica) del buon padre di famiglia.

Questo libro l’ho maltrattato ma anche esplorato, come una roulette, un mercatino dell’usato, una pepita da setacciare in un torrente del Klondike. Non mi importava di capire, volevo solo assaporare un colore, il ritratto di una scarpa, smontare una droga, pixelare descrizioni, ammirare gesti.

Perchè di gesti si tratta: gesti atletici dei giocatori di tennis protagonisti del libro, gesto verbale dell’autore, gesto edonista del lettore. Tutti gesti, tutti rigorosamente inutili.

Cosa c’è da capire? “Fatelo e basta. Non state a pensare se c’è un senso. Certo che NON c’è un senso” (Infinite Jest, cap. 3 novembre APAD).